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Oriente espresso | Storia sentimentale del ramen
Copertina dell'articolo Oriente espresso | Storia sentimentale del ramen
DI STEFANIA LEO

 

Chi è cresciuto guardando “Kiss Me Licia”, porta con sé anche la voglia di assaggiare quei lunghi spaghetti risucchiati da ciotole fumanti, serviti da papà Marrabbio. Col tempo, si è cercata una risposta a quel desiderio nei barattoli di ramen istantanei, arrivati anche da noi. Poi, con l’aumento degli esploratori gastronomici, i cuochi che hanno aperto locali specializzati in questa pietanza si sono moltiplicati.

La giornalista Chiara Patrizia De Francisci e lo chef Luca Catalfamo hanno raccolto tutto ciò che hanno imparato negli anni su questo piatto nel libro “Casa Ramen. Tecniche, ingredienti, cultura: il libro definitivo” (Giunti).

 

Uno, centomila
Esistono tanti ramen quanti sono i cuochi che lo cucinano. Nato circa un centinaio di anni, la sua storia recente permette di considerarlo un piatto in piena evoluzione, su cui ogni cuciniere può dire la sua. Come si legge nel libro, «una ciotola di ramen è un insieme armonico di brodo, tare (il condimento, per semplificare), pasta (men) e guarnizioni, dette ormai comunemente topping. Partendo dalla più completa semplicità, un ramen potrebbe essere composto anche solo da brodo, tare e men».

I ramen si mangiano nei ramen-ya, posti resi unici dalle personalità del cuoco. Una volta ricevuta la ciotola, c’è anche una specifica etichetta da seguire. Ma non pensate a comandamenti restrittivi: mangiare il ramen è liberatorio. Prima di tutto, meglio non indugiare: si tratta di un piatto da consumare senza distrarsi, per coglierne tutte le potenzialità. Annusate la ciotola per respirare gli aromi del cibo che state per consumare.

Assaggiate il brodo con il renge, il cucchiaio cinese. Non strofinate tra di loro le bacchette: è un gesto maleducato, così come piantare queste posate nella ciotola. Invece datevi al libero risucchio dei noodles, che vi aiuterà a raffreddarli. Prelevatene pochi, in modo da non dover tranciare il boccone con i denti. Alternate brodo, noodles, topping, in modo da godere ogni sfumatura del vostro ramen. Se c’è un uovo, aiutatevi col cucchiaio. Infine, sentitevi liberi di bere dalla ciotola gli ultimi sorsi di brodo.

 

Una lunga storia d’amore
Luca Catalfamo ha fatto la storia del ramen a Milano. Durante il suo viaggio in Giappone, Chiara Patrizia De Francisci ha mangiato almeno un ramen al giorno, quando non erano due. È naturale che questi due appassionati, complice il lockdown, decidessero di concentrare tutta la propria passione in un libro. Dopo due anni è nato questo “figlio della pandemia”, che va ad aggiungere un tassello a una curiosa storia d’amore: quella tra Italia e Giappone.

Le due culture si incontrano su un fattore chiave dell’alimentazione: una cura del prodotto fuori dal comune. Come spiega De Francisci, «in Giappone c’è la vocazione al dedicarsi a un prodotto solo e perfezionarlo fino alla fine. Non sono mai soddisfatti e sono convinti di potersi migliorare ogni giorno. È un modo di lavorare che trovo molto in alcuni artigiani del cibo in Italia, come quelli della mozzarella di bufala in Campania. E quel modo di lavorare l’ho visto in Luca, che ha introdotto anche il menu omakase, un percorso pensato in autonomia dallo chef.

 

Innamorarsi dell’inaspettato
Dopo una sbronza di sushi all you can eat, la ristorazione giapponese (ma anche cinese) presente in Italia ha iniziato a presentare piatti tradizionali, meno conosciuti ma subito amatissimi. Il ramen è tra questi. In poco tempo è diventato richiestissimo, passando da mania per pochi intenditori a desiderio più ampio. «Se una cosa è davvero buona e non l’ennesima fotocopia di ciò che è già visto, un piatto trova il modo di emergere, soprattutto grazie al passaparola».

In principio, i menu dei ristoranti orientali parlavano cinese, ma pensando agli occidentali. «Oggi non si vuole più diluire l’autentico perché le persone hanno mostrato maggiore apertura. La voglia di sperimentare è forte e spinge a provare piatti come le orecchie di maiale, scoprendo che ci si può innamorare dell’inaspettato».

 

Dalle pagine al ristorante
Luca Catalfamo non ha solo aperto un ristorante oggi frequentatissimo. Da novello Marco Polo, ha aggiunto un tassello alla rivoluzione gastro-culturale. Dopo aver provato il ramen autentico, sperimentandone tutte le sfaccettature, si è reso conto che in Italia non c’era un luogo dedicato a questo tipo di piatto. Lo ha creato perché non era un salto nel buio: c’erano tante persone che lo avevano provato lo volevano anche in patria. Casa Ramen è diventata la risposta al bisogno che non sapevamo di avere.

 

La ricetta perfetta
Ma come deve essere il ramen perfetto? Secondo De Francisci dipende dai nostri gusti, dallo stato d’animo, ma c’è anche una verità condivisa su questo piatto. Per essere perfetto, richiede i tempi e la cura giusti. «Non è una minestrina, un brodino da preparare in due minuti. Ogni elemento ha un suo percorso e la sua cura. Tutti gli elementi, insieme, concorrono a fare un piatto che è un’esplosione di sapori».

Leggere Casa Ramen potrebbe fare di noi i prossimi sensei di questa ricetta. Oppure potremmo rimanere semplici appassionati con qualche nozione in più. Ma la magia del ramen sta proprio in questo, nella possibilità di coglierne la bellezza anche senza avere una preparazione gastronomica approfondita. «Anche se non fa parte delle tue radici, il ramen ti riporta a casa, come accade con alcuni piatti di grandi chef. Quando lo si assaggia, lui ti parla a un livello profondo e ti porta a qualcosa che è già dentro di te. Dentro quella ciotola ci sono tanti elementi, che ci riportano a fatti della nostra vita, a volte dimenticati, come le risate davanti ai cartoni animati giapponesi».

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